sabato 14 gennaio 2017

SAN PAOLO E I DEMONI



Quando san Paolo giunse a Pozzuoli da Malta, sfinito da un ulteriore viaggio pieno di peripezie, venne invitato a fermarsi una settimana in quello che prima di Ostia era stato il porto di Roma. A pochi passi dal mare, si trovò di fronte ad un tempio dedicato a Serapide, divinità solare di matrice greca, ma di genesi egizia. Come ad Atene, egli dovette “fremere nel suo spirito” vedendo anche questa città piena di idoli (cfr. At 17, 16). Tuttavia, pur debilitato dall’estenuante attività apostolica descritta nell’ultimo capitolo degli Atti, Paolo non si perse d’animo e ben presto si rimise in marcia verso Roma, per riprendere la predicazione contro la falsa religiosità dei pagani, in particolare quella rivolta all’idolo solare, che egli conosceva molto bene, provenendo dalla Cilicia, la terra di Mitra.
Altrettanto bene aveva imparato a conoscere le persecuzioni che toccavano a chi si poneva contro le radicate superstizioni pagane. A Efeso gli si erano sollevati contro gli orafi costruttori delle statue di Diana-Artemide, protettrice delle prostitute, in crisi di affari perché la loro divinità stava soccombendo inesorabilmente di fronte alla predicazione dell’Apostolo ed il conseguente diffondersi della dottrina cristiana, che non lasciava spazio ad alternative o a strane vie di mezzo, e che quasi imponeva la fatidica scelta: o con Cristo, o contro Cristo. Molti efesini infatti avevano confessato pubblicamente il loro ricorso alle pratiche magiche e spontaneamente avevano dato fuoco a tutti i libri di magia nera in loro possesso il cui valore complessivo ammontava a cinquantamila dramme d’argento (cfr. At 19). Una somma considerevole. Nell’Attica, la dramma d’argento corrispondeva alla paga giornaliera di un lavoratore generico. Dunque, cinquantamila giornate di lavoro. Più di una decina d’anni lavorativi di un operaio.
Paolo, come tutti gli altri apostoli, sostenne con chiarezza e senza tanti distinguo, l’insanabile opposizione fra il culto rivolto a Cristo e quello dedicato ai demoni. Chi non venera Cristo, venera gli idoli: «I sacrifici dei pagani sono fatti a demoni, e non a Dio. Ora, io non voglio che voi entriate in comunione con i demoni; non potete bere il calice del Signore e il calice dei demoni; non potete partecipare alla mensa del Signore ed alla mensa dei demoni» (1 Cor 10, 19 -22). Altrove, aggiunge: «Quale rapporto infatti ci può essere tra la giustizia e l’iniquità, o quale unione tra luce e tenebre? Quale intesa fra Cristo e Beliar, o quale collaborazione fra un fedele e un infedele? Quale accordo tra il tempio di Dio e gli idoli? Non siamo infatti il tempio del Dio vivente?» (2 Cor 6, 13-16).
A proposito della sua volontà di recarsi in Tessalonica, ove lo attendevano nuove comunità cristiane, Paolo sperimentò in modo evidente l’azione contraria del maligno, che fece di tutto per impedirgli quel viaggio apostolico: «Quanto a noi fratelli … abbiamo desiderato una volta, anzi due volte, proprio io Paolo, di venire da voi, ma Satana ce lo ha impedito» (1 Ts 2, 18). Anche su questo tema, San Paolo evita qualunque divagazione. Non è un dotto, ma un apostolo. Se parla è per mettere in guardia i suoi discepoli circa il potere reale di seduzione del maligno, che egli conosce bene. Ma dal quale è altrettanto conosciuto: «Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?», domandò lo spirito avverso ad alcuni esorcisti ambulanti giudei, prima di metterli in fuga per mano di un indemoniato, coperti di ferite ed addirittura nudi (At 19, 13).
Il maligno, proprio perché sostanzialmente ingannatore, è tuttavia così abile da dissimulare la propria natura, prendendo le sembianze della divinità che vorrebbe adombrare. Per ingannare gli uomini ed indurli nell’errore e nel peccato, «Satana, di cui non ignoriamo le macchinazioni … si maschera da angelo di luce» (2 Cor 2, 11 e 11, 14).

S. Paolo indica con estrema efficacia il pericolo derivante dai falsi culti, anche se lo fa in modo formalmente diverso dal suo Divino Maestro, capace di affascinare le folle con efficaci, suggestive e sintetiche parabole. Nelle sue Lettere, l’Apostolo in genere non utilizza un linguaggio attraente, poetico, allusivo come quello del Vangelo. Egli non evoca nemmeno immagini profetiche, tremendi «sigilli» da sciogliere, significati chiusi tutti da interpretare, come è in grado di fare l’apostolo Giovanni, nel misterioso libro dell’Apocalisse.
Lo stile di Paolo, a parte gli straordinari slanci cristologici, non è immediato. Ma dimesso, discorsivo, non suggestivo. A volte, apparentemente contorto, se non proprio “noioso”. Tuttavia, nessuno fra gli apostoli è più vicino a Cristo di quanto lo sia Paolo. Nessuno si identifica totalmente a Cristo, al punto da dire: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me». Nessuno condivide come lui la passione e la croce del Signore: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2, 20). E più avanti prima di concludere bruscamente la lettera ai Galati, «O stolti Galati, chi mai vi ha ammaliati!» (3,1), afferma: «Io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo» (6, 17).
Ebbene, San Paolo, così partecipe della croce ed della gloria di Cristo, ha indicato quale fossero i veri nemici contro i quali combattere: «La nostra battaglia non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti» (Ef 6, 12). Questa affermazione dimostra l’incomparabile intelligenza spirituale di colui al quale «è stata concessa la grazia di annunziare ai Gentili le imperscrutabili ricchezze di Cristo» (Ef 3,8). Intelligenza che trascende decisamente i limiti degli effetti contingenti, per giungere alla causa metafisica degli eventi.
San Paolo infatti, in virtù della particolare esperienza di Cristo, culminata con il rapimento estatico al terzo cielo, in paradiso, ove «udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare» (2 Cor 12, 4), non può che amplificare la portata temporale del «mysterium iniquitatis» già in atto (2 Ts 2, 7), non riferendolo ad uomini in particolare, ma riconducendolo alla sua vera e sola essenza: «il principe delle potenze dell’aria, quello spirito che opera negli uomini ribelli» (Ef 2,2). L’Apostolo lascia intendere che i potenti di questa terra sono a loro volta sottoposti ad un potere superiore, metafisico, costituito da quegli spiriti dell’aria ai quali sono rivolti i culti ed i sacrifici che essi celebrano. A tale potere è soggetto non solo chi partecipa, ma anche chi consenta siano celebrati tali culti illeciti. 

Anticamente, era assai diffusa la credenza «che un fanciullo o gruppi di fanciulli impuberi potessero costituire i migliori depositari di rivelazioni, di sogni e di doni divinatori». Credenza avvalorata dal fatto che nell’antica Roma esistevano i «pueri magici», che i sacerdoti inducevano alla trance o al sonno magico: «Quando uno spirito è evocato nessuno ha il potere di vederlo se non fanciulli di undici e dodici anni d’età o tali che siano davvero vergini»[1].
Sant’Agostino esamina tali credenze e pratiche evocatorie rivolte a dei e demoni, nella Città di Dio. Egli riporta l’opinione comune, affermata in modo speciale da Apuleio, riguardo alla realtà animata, ordinata in tre classi: «Dei, uomini e demoni. Gli dei occupano la posizione più eminente, gli uomini l’infima, i demoni quella di mezzo; infatti, la sede degli dei è il cielo, quella degli uomini la terra, quella dei demoni nell’aria» (Libro 8, 14). I demoni stanno fra gli uomini e gli dei e fungono da intermediari. Ed in quanto tali vanno propiziati attraverso cerimonie magiche e mediante l’offerta di opportuni sacrifici. Aggiunge tuttavia il santo d’Ippona: «Essi sono invece spiriti pieni del desiderio di nuocere, totalmente alieni dalla giustizia, gonfi di orgoglio, lividi d’invidia, astuti nell’inganno; abitano nell’aria, perché abbattuti dalla sublimità del più alto cielo come punizione di una trasgressione irrimediabile e condannati a questa specie di carcere a loro conveniente» (L. 8, 22).
Questi stessi demoni vengono unanimemente indicati dagli esperti in esoterismo, come i veri governatori delle sette segrete. Pierre Mariel, ad esempio, concluse che queste consorterie occulte: «obbediscono tutte (ed i veri Superiori lo sanno) ad un’unica direzione. Esistono (al di sopra delle divergenze apparenti) Superiori Sconosciuti, raggruppati in un Centro del Mondo, che sono i direttori d’orchestra in quest’insieme, dove ogni società è uno strumento docile e ben accordato»[2]
Tali «superiori sconosciuti», «daimon» per intenderci, ancora presenti e più che mai attivi in mezzo a noi, rappresentano quegli spiriti del male sparsi nell’aria, contro i quali San Paolo guerreggiò senza riserve. E contro i quali non ci resta che combattere, in senso paolino, «sino alla fine e rimanere in piedi, padroni del campo» (Ef 6, 13). Del resto: «le guerre sono vinte da coloro i quali hanno saputo attrarre dai cieli le forze misteriche del mondo invisibile e sanno assicurarsene il concorso»[3]. E solo i cristiani hanno dalla loro parte il favore incondizionato delle potenze angeliche, le quali non aspettano che essere invocate in ogni occasione, «opportune, importune» (2 Tm 4, 2), per intervenire in loro favore.






[1] F. M. Dermine, Mistici, veggenti e medium - Esperienze dell’al di là a confronto, Libreria Editrice Vaticana, 2002, p. 99.
[2] P. Mariel, Le società segrete che dominano il mondo, Firenze, 1976, p. 207.
[3] in F. Belfiori, San Paolo, Volpe Editore, Roma, 1971, p. 12.