sabato 19 marzo 2016

La fine di Babilonia







È noto che Pio IX e don Bosco condannarono unanimemente i soprusi subiti dalla Chiesa da parte dei liberali che lottavano per la determinazione di un nuovo stato sociale a spese dei vecchi poteri, rappresentati dalla stessa Chiesa e dall’Impero asburgico. L’unità d’Italia si stava infatti effettuando sotto la direzione di ben altri poteri, le Logge internazionali, che prendevano possesso del nostro suolo, mascherando i loro interessi dietro una politica rivoluzionaria, indirizzata verso fini ignoti alle moltitudini.
Del resto, è risaputo che «la Massoneria rappresenta l’armata silenziosa che lavora nel mondo occulto, cioè nel sottosuolo della storia, per il progresso dell’Umanità … come la Massoneria, anche la Carboneria, riformati i suoi statuti nel Marzo 1945, opera oggi in Italia, proseguendo la sua missione per la libertà e per il bene dell’Umanità» (W. Anceschi, La Massoneria iniziatica, Ed. Rebis, Viareggio 2002, pp. 13-14).
Nonostante gli appelli, gli avvertimenti, gli oscuri presagi più volte manifestati dai Santi risorgimentali contro questa millantata missione, tesa all’imposizione di un regime statalista, ottenuto con la violenza di pochi più che per la convinzione dei molti, la storia proseguì il corso impostogli dalle Logge, lasciando sul campo quanti cercarono di opporsi alla sua realizzazione.
La condanna di don Bosco di fronte allo svolgersi dei proclami liberali fu assai netta. Nella sua Storia Ecclesiastica, scrive: «Per prima cosa quel governo impose tributi, spacciò un’immensità di carta monetata, si appropriò dei beni della Chiesa: campane, calici, pissidi, ostensori, turiboli, ogni oggetto d’oro o di argento che fosse nelle chiesa era involato per far denaro. Vari sacerdoti e religiosi furono trucidati, dodici in un solo giorno pugnalati. Monasteri e conventi violati e profanati, e non pochi sacerdoti e religiosi barbaramente sgozzati».
Questa barbarie avvenne grazie alle manovre di casa Savoia la quale, in controtendenza alla sua tradizionale fedeltà alla Chiesa Romana, divenne fautrice di una legislazione anticattolica e filo-protestante invadendo più volte lo Stato Pontificio, fino alla presa di Porta Pia, del 20 settembre 1870. Già nello stesso giorno di alcuni anni prima, venne versato sangue innocente come tributo della nuova Patria.
Il 20 settembre 1864, infatti, quando la capitale del nuovo regno venne trasferita da Torino, la popolazione torinese che manifestava contro questo atto deciso dall’imperatore di Francia, Napoleone III, venne rabbonita dal fuoco delle baionette della Guardia Nazionale. Rimasero a terra più di 50 morti «dei quali circa 40 erano piemontesi, quasi tutti sotto i trent’anni e molti provenienti da fuori Torino, quindi immigrati. E il lavoro che svolgevano non era di certo agevole; quei torinesi, o i loro figli, si batteranno parecchi anni dopo per ottenere un orario non superiore alle dodici ore quotidiane» (F. Ambrosini, Giornate di sangue a Torino, Ed. Il Punto, Torino 2014, p.165).
Il re Vittorio Emanuele II, che durante la protesta popolare pensò bene di lasciare Torino per la tenuta di Sommariva Perno, dovette abbandonare presto anche le sue particolari abitudini, per aderire al progetto di riconversione della Roma felix nella Roma babilonica. Il re “gentiluomo” era infatti molto attaccato alla “carne piemontese”.
Cacciatore “integrale”, attraversava intrepido valli e boscaglie, per giungere a Cogne ed in Valsavaranche, ove era atteso da ragazze che gli balzavano intorno, sperando nelle sue generose ricompense. I popolani sapevano che il “re cacciatore” prediligeva le giovani sempliciotte, specialmente quelle che sprigionavano dal corpo i sudori delle fatiche campagnole, l’odore del fieno e delle vacche appena munte. Nel corso di tali incontri, assai poco regali, Vittorio Emanuele II: «amava che le donne gli si presentassero nude, con scarpettine e calzette; e fumando sigari avana si divertiva a contemplarle, mentre gli ballavano intorno. Ma ad un tratto lo pigliava l’estro venereo e le sfondava tutte», (C. Dossi, in D. Ramella, Amori e selvaggina – Vita privata di Vittorio Emanuele II, Ananche, Torino 2010, p. 177).
A queste ragazze più o meno prezzolate, raccolte e abbandonate come fienagione senza valore, si aggiungevano le molteplici amanti di questo Re, di controversi natali, che tanto si adoperò in guerre e trame politiche. Amanti ufficiali e segrete, amanti passeggere, spesso adescate nella notte da servitori fidati lungo i viali. Ma la sua preferenza rimaneva la «Valsavaranche dove era seguito da un harem di donne. La conferma inequivocabile che tra la piccola corte al seguito di Vittorio nelle sortite alpine, la componente femminile aveva il suo, non trascurabile, peso. Oltre ovviamente alla “fauna locale”» (Ib.).
Anche per queste sue tendenze assai detestabili, prese piede una strana diceria, accreditata peraltro anche da Massimo D’Azeglio, “la lingua più affilata del regno”, riguardo alla sua nascita. La storia ufficiale narra che la notte del 16 settembre 1822, il figlio di Carlo Alberto, Vittorio Emanuele, di soli due anni, dormiva nella culla. Quando un’imprudenza della balia, avvicinatasi troppo alla culla ricoperta di veli, provocò l’incendio rapido della delicata velatura. La balia si lanciò sul bambino cercando di salvarlo dalle fiamme, ma nel far questo si ustionò gravemente ed in breve morì.
La versione inconfessata – accreditata come dicevamo anche dal D’Azeglio e da una prova che a molti sembrava, e sembra, lampante: la componente grossolana della persona e del carattere del futuro primo Re d’Italia – narra invece che in quella notte, la balia, pur rimettendoci la vita, non riuscì a salvare quella dell’illustre bambino. Di fronte a questa tragedia, il Casato, volendo evitare problemi di successione, prese una drastica e segreta decisione. Si sostituì, al bimbo deceduto, il figlio di un macellaio di Poggio Imperiale, un certo Tanaca, che aveva una decina di figli. L’ultimo di questi, della stessa età del figlio di Carlo Alberto. Il Tanaca avrebbe consegnato ai Savoia questo bambino, insieme al suo silenzio.
Le differenze rispetto ai suoi genitori, con la crescita si evidenziarono sempre di più. Carlo Alberto, suo padre, raggiungeva i due metri di altezza; alta era anche sua madre Maria Teresa. Entrambe i genitori, avevano tratti fini, delicati, lineamenti morbidi come gli altri Savoia, educazione affinata da una nobiltà rinsaldata nei secoli. Vittorio Emanuele era invece basso, tarchiato, grezzo nei lineamenti, nei gusti, sfrenato nelle manie carnali, nei lazzi. La regina madre, confidava al padre, Ferdinando III, granduca di Toscana, le sue perplessità di fronte a questo figlio così problematico: «Io non so veramente da dove sia uscito codesto ragazzo. Non assomiglia a nessuno di noi e si direbbe venuto per farci disperare tutti quanti» (in L. Del Boca, Maledetti Savoia, Piemme, Milano 2011, p. 24).
Innumerevoli ed irrefrenabili furono le debolezze di questo Savoia, che si affacciò con soddisfazione al balcone del Quirinale, al posto dell’esautorato ultimo Papa Re, proferendo il sospirato:«Finalment ai suma!», finalmente ci siamo. Espressione prontamente tradotta con più la adeguata locuzione: «Siamo arrivati a Roma e ci resteremo!».
Nasceva così la nostra Italia, al suono di reiterate scomuniche ed anatemi rivolti ai suoi fautori, nonostante il suo interno fosse lacerato. Nel regno delle due Sicilie, saldamente ancorato al Re, alla tradizione ed alla Chiesa, l’esercito piemontese in una guerra non dichiarata, dal 1861 al 1863, fucilò 1038 oppositori, altri 2413 di questi perirono in combattimento, 2768 furono fatti prigionieri, ventimila vennero trasferiti ed ammassati nei “lager” di Fenestrelle e di San Maurizio Canavese. Su questi "uccisi della terra" è caduto un silenzio assordante, come se non avessero alcun valore.
Le ricostruzioni storiche slacciate dalla vulgata di regime dichiarano che le vittorie di Garibaldi sull’esercito del Regno delle Due Sicilie derivavano dalle milionarie cifre investite dalla massoneria inglese per corrompere truppe e funzionari borbonici. Tre milioni convertiti in piastre turche, insieme a promesse di carriera e benessere, servirono a ricondurre i generali napoletani all’obbedienza massonica imposta dall’eroe dei due mondi.
Il generale, iniziato al “rito scozzese” da Mazzini, a sua volta membro onorario della loggia La Stella d’Italia di Genova e della loggia La Regione, dello stesso Oriente (Dictionnaire Universel de la Franc-Massonerie, II, 1974), proseguì la sua carriera conseguendo, dopo il 33° grado ricevuto a Torino nel 1862, la suprema carica di Gran Ierofante del rito egiziano del Memphis-Misraim nel 1881. Il Grande Oriente di Palermo gli conferì tutti i gradi, dal 4° al 33°.
Garibaldi, in nome della tolleranza religiosa massonica, definì Pio IX: «un metro cubo di letame … la più nociva di tutte le creature, perché egli, più di nessun altro, è un ostacolo al progresso umano, alla fratellanza degli uomini e dei popoli … se sorgesse una società del demonio, che combattesse dispotismo e preti, mi arruolerei nelle sue fila» (G. Garibaldi, Scritti e discorsi politici e militari, Ed. Cappelli 1935, II, p. 397). Ma oltre al generale nizzardo e Mazzini, anche Camillo Cavour, ministro e capo del Governo piemontese, secondo l’Acacia Massonica del febbraio-marzo 1949, era legato alla massoneria internazionale. Don Bosco, assai informato e bersagliato in proposito, nelle sue Memorie, affermò che: «qui, in Piemonte, Cavour fu uno dei capi della massoneria» (vol. IX, pag. 313).
Di questi grandi fautori della Patria, che combattevano la Chiesa sotto i labari della contro-chiesa internazionale, tanto esaltati dai libri della storia e dalla retorica di Stato, filtra un volto diverso. Il volto dell’affiliazione e di un’opera che ha condotto all’oppressione di quelle fasce popolari che essi dichiaravano di voler affrancare dal dominio e dalla presunta vessazione dei Preti e della Religione.
La ricaduta di questa crociata laicista è ben visibile ai nostri giorni, come effetto di una causa imposta e sbagliata. L’emancipazione ed il progresso tanto decantati hanno invece diffuso i germi irrefrenabili di una corruzione, violenza e depravazione estese a tutti i livelli. Dopo quelle di Porta Pia, sono le mura dell’intera società a vacillare, a dare continui segni di crolli individuali e collettivi. Da allora, è stato l’uomo stesso a franare, aprendo le porte alle forze infere che stagnano al suo interno e che solo l’autorità della Chiesa ha il potere di tenere a freno. L’anticristo presente in ogni persona è quindi pronto a manifestarsi in ogni occasione, essendo stato tolto di mezzo quasi del tutto quanto frenava la sua manifestazione. Ossia, le mura metafisiche di Roma, la forza spirituale del Sacro Impero, il ruolo divino della sacra Autorità.
Nell’ebbrezza di questa nuova Babilonia, la natura intima dell’uomo è divenuta vittima giorno per giorno di se stessa e del suo lato oscuro, che si manifesta nelle reazioni violente, inconcepibili, addirittura diaboliche che sistematicamente riempiono le cronache cittadine. Purtroppo, anche la città di Dio riflette nel suo interno l’azione della forza disgregante di Satana, che cerca di confondere il sacro con il profano e di contrapporre la tradizione con il rinnovamento, il “pre” con il “post” Vaticano II.
Fino a che punto e fino a quando questo processo di desacralizzazione avanzerà, non è dato saperlo. Ma di certo si sa che “Babilonia, covo di demoni, possente città, in un’ora sola vedrà la sua condanna, in un’ora sola sarà ridotta a un deserto e più non apparirà … perché in essa fu trovato il sangue dei profeti e dei santi e di tutti quelli che furono uccisi sulla terra” (cfr Ap 18).