martedì 9 agosto 2011

LA MONTAGNA SACRA




Sant’Agostino, nella Vita beata (I, 3), scrive che il primo enorme ostacolo che incontrano gli amanti della sapienza è un altissimo monte, metafora del proprio io, mons saeculi, dominato dal diavolo. Tale montagna deve essere non solo temuta, ma evitata con cura, perché rende illusoria e vana qualunque pratica spirituale. A questa montagna, Agostino contrappone quella ineffabile, dominata da Cristo.

A ben vedere, queste due simboliche montagne in sostanza ne rappresentano una sola. Infatti, ogni uomo può considerarsi come una grande montagna, con una base, una struttura ed un vertice, dal quale si è attratti, giorno per giorno. In questo senso, la vetta della montagna rappresenta pertanto il punto più alto della terra rispetto al cielo, e dell’anima rispetto a Dio. Ma non solo.

Sulle linee della metafora, la vetta della montagna rappresenta in un certo senso il sacrificio massimo e perfetto che l’uomo possa compiere: l’offerta del proprio corpo e della vita a Dio (cfr. Rm 12, 1). La vita stessa può essere allora considerata come il processo di risalita della sacra montagna, o anche come l’annullarsi della propria coscienza in Dio. Ovvero, come il passaggio dalla concezione egocentrica del mondo e delle cose, a quella divina e cristocentrica.

Salendo la montagna infatti la visione si allarga, il panorama si distende, le cose stesse nel loro insieme assumono strutture più ampie e universali, prima impensabili. Questa salita simbolica si realizza effettivamente in modo privilegiato e infallibile mediante il quotidiano e pacificante ritmo delle liturgie, personali e comunitarie, attraverso le quali la Santa Chiesa celebra le continue risurrezioni del suo “corpo”, derivanti dall’unica e definitiva Risurrezione del suo Capo.

Infatti, il sacrificio salvifico del Cristo (cfr. 1 Cor 6, 20) costituisce il prezzo del nostro riscatto, la cifra del nostro innalzamento al cielo, dal momento che, sul monte dell’amore, la divinità si abbassa, l’umanità si innalza. È sulla croce che l’oblazione del Figlio al Padre, e del Padre al Figlio, è totale. È sulla croce che l’uomo viene innalzato nella divinità, al di sopra di tutti gli altri esseri. È dalla croce che Cristo ha aperto la porta del cielo, ha reso accessibile l’ingresso nel Regno, tracciando in sé la Via che consente a chiunque lo voglia di oltrepassare il mondo, e di dire al mons saeculi: <<Levati e gettati nel mare>> (Mc 11, 23), sicuro di essere esaudito.

La salita della montagna sacra corrisponde dunque al risveglio dell’immagine divina impressa in noi, attraverso il sacramento del battesimo. Giorno per giorno, il peso che ci lega alla terra, le forze che ci costringono nei bassifondi del nostro essere si affievoliscono, sotto l’azione continua e silenziosa della grazia. Il cui effetto di risalita è proporzionale alla consapevolezza della sua opera. Infatti, si può persino correre su rocce e lastroni, superando ad occhi chiusi le più insidiose morene, quando si prende coscienza che nulla potrà separarci dall’amore di Cristo (cfr. Rm 8, 35), nulla potrà slegarci dall’attrazione del suo amore eterno, per noi.

Può succedere che si cada, o che un passo stia per affondare nel vuoto. Ma proprio nel momento dell’insidia, un angelo allungherà la sua mano a nostra salvaguardia (cfr. Sal 90, 11-12). La roccia stessa (Mt 16, 18) correggerà quel passo, cancellerà l’errore. In virtù del sangue di Cristo, la pietra d’inciampo diventerà testata d’angolo, dal peccato eromperà la grazia del perdono.

Si sale celermente verso la vetta, quando si capisce che è impossibile che la grazia interrompa la propria azione. Infatti, non è l’uomo a salire, malgrado ne abbia forte sensazione e certezza. L’uomo è sempre e solo inesorabilmente attratto verso l’alto. Dunque, minore resistenza, maggiore attrazione.
Non c’è un percorso unico, uguale per tutti, che porti in cima alla vetta di noi stessi. Un tracciato facile per uno, può essere insidioso per l’altro. Nessuna via potrà mai essere uguale ad un'altra, per quanto simile. Occorre dunque risalire a proprio modo, senza temere troppo le difficoltà, sapendo che per tutti la Via maestra, malgrado le apparenze, è sempre una sola.
La libertà di risalita, e di vita, non deve però essere pretesto di peccato (cfr. Gal 5, 13), perché il peccato annulla la consapevolezza dell’azione della grazia, offusca gli occhi, e riporta rovinosamente ai piedi del monte che un giorno, senza particolari meriti, siamo stati chiamati a risalire ( cfr. Mc 3, 13).
Chi sale la montagna, sale nella solitudine. Restano indietro cose e persone. Crescono le distanze. Cresce il silenzio. Ma proprio quando la solitudine diventa estrema, insopportabile, estenuante. Proprio allora dobbiamo abbandonarci maggiormente all’azione della grazia, perché si è prossimi alla meta.
Infatti, poco distante, lassù, sulla cima, nel punto più alto della nostra “terra”, nel punto più basso del nostro “cielo”, siamo attesi, con impazienza. Da una piccola croce. La nostra croce. La nostra gloria. La manifestazione finale della nostra divinità. In Cristo. Eterna beatitudine.

Poiché l’anima non si distingue dal tempo, in noi stessi si ergono oltre le balze e le pianure, guglie maestose e possenti, inaccessibili agli altri. Io penso che i grandi momenti di esaltazione e di intimità con il Signore, vissuti nella transitorietà delle situazioni presenti, rappresentino le punte più alte della nostra montagna sacra, gli asintoti infiniti ed improvvisi del nostro tempo. Vette altissime disseminate fra miserie giornaliere.
Su questo paesaggio brulicante di vita e di persone regneremo incontrastati, quando verremo definitivamente assorbiti dall’Amore assoluto e universale, che non si adombra mai. Del quale continuamente ricerchiamo le tracce. Quaggiù. Tra le fatiche. Nelle pianure quotidiane.





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