domenica 19 dicembre 2010

IL SOLE DI FATIMA



L’esperienza religiosa coinvolge la sfera personale dell’individuo, in quanto soggettiva e del tutto incomunicabile. Essa è improvvisa, irripetibile, indimostrabile. Il silenzio mistico è l’espressione e l’enunciazione di tale ineffabile evento sperimentato nella profondità del proprio io. L’esatto contrario dell’esperienza scientifica che, per rientrare nei protocolli che la definiscono, deve essere ripetibile e verificabile in modo oggettivo dagli sperimentatori.
Questa premessa, in fondo scontata, è tuttavia necessaria per mettere a fuoco un aspetto del tutto trascurato del prodigioso evento che si verificò a Fatima il 13 ottobre 1917, durante la sesta ed ultima apparizione della Vergine, di fronte a circa 70 mila persone in attesa del «segno», predetto ai veggenti dalla Madonna.
Tale segno si verificò puntualmente, quando la visione giunse al termine.
In quel momento, infatti, Lucia esclamò: «Guardate il sole!». La pioggia, fino allora intensa, smise di cadere all’improvviso. Le nubi si aprirono. Comparve un sole splendido, che cominciò a muoversi, girando su se stesso vorticosamente, allontanandosi a zig zag dalla propria posizione, fin quasi a cadere sulla folla sconvolta. (1)
L’astro, animato da un movimento irregolare e rapidissimo, si spostava nel cielo, pulsando luce rossastra e bagliori innaturali. Questo, per circa dieci minuti. Poi, il sole riprese la sua posizione abituale, sopra una moltitudine di persone sbigottite e sgomente.
Anche la stampa anticlericale, che fino allora aveva irriso le apparizioni della Cova de Iria, fu costretta a riportare con enfasi sulle prime pagine dei giornali il prodigioso miracolo del sole, predetto dalla donna vestita di sole.
Quel giorno, a Fatima, propiziato dalla donna vestita di sole, si verificò qualcosa di non meno straordinario delle famose teofanie attestate dalle Sacre Scritture. Come a Giosuè, nella valle di Gabaon, ove il sole stette fermo in mezzo al cielo e non si affrettò a calare quasi un giorno intero (confronta Giosuè 10, 12-13); come, di fronte ad Ezechia, Deus Sábaoth fece retrocedere il sole di dieci gradi sulla scala della meridiana che aveva disceso (confronta Isaia 38, 8); come, durante la crocifissione di Cristo, il sole si eclissò per tre ore (confronta Matteo 27,45; Marco 15, 23; Luca 23, 44); così, quel giorno, nella Cova de Iria, l’astro possente, il terribile «sol invictus», venne scosso dalla propria posizione e fatto sobbalzare qui e là nel cielo come una innocua palla, davanti agli occhi di una moltitudine attonita.
L’evento fu ancora più eccezionale se consideriamo che il sole, secondo il paradigma eliocentrico, costituisce il centro del sistema solare, il punto nevralgico, l’unico elemento inamovibile della compagine planetaria, che garantisce la stabilità e l’esistenza stessa del nostro sistema. Un minimo spostamento del sole sarebbe causa di ineluttabili conseguenze apocalittiche. Infatti, i pianeti orbitanti intorno ad un centro improvvisamente venuto a mancare, crollerebbero in un attimo, come un castello di carte. Eppure, a Fatima, il 13 ottobre 1917, si verificò proprio questo fatto, per la scienza del tutto inconcepibile. Dunque, o tale segno è stato un’allucinazione collettiva, una psicosi di massa, o la teoria eliocentrica in tale occasione è stata palesemente smentita.
Accettato il fatto, resta da comprenderne il messaggio. Proviamo allora ad aggiungere all’evento di Fatima un significato ulteriore e cosmologico. Ovvero, interpretiamolo come una sorta di lezione di teologia della natura, impartitaci dal Signore per suggerirci che il sole non svolge un ruolo puramente scientifico espresso dal sistema copernicano. Dietro la sua immagine razionale, si nasconde un cuore oscuro, direttamente collegato al culto solare arcaico che dall’indoeuropeo si radicò nelle prime forme di civiltà, dai babilonesi, ai caldei, agli egiziani, ai persiani. Fino ai nostri giorni.
Già Thomas Paine, fazioso assertore della rivoluzione americana, scrisse nel famoso libro An Essay on the Origin of Free Masonry, che il culto del sole celebrato dagli antichi egizi e dai druidi celtici, evocato anche da Pitagora sotto forma di “fuoco centrale”, è stato ripreso in tutta la sua essenza dalla massoneria, a partire dal soffitto delle logge massoniche, ornate con il sole, che simbolicamente splende sulle mattonelle chiare e scure, che richiamano l’ombra e la luce che si riversa e determina sulla varietà degli esseri.
Inoltre Paine afferma che: <<il significato emblematico del Sole è ben noto alla Massoneria illuminata e ricercatrice: e come il Sole reale è situato al centro dell’universo, così il Sole emblematico è al centro della Massoneria reale. Noi tutti sappiamo che il Sole è la fontana della luce, la sorgente delle stagioni, la causa del susseguirsi del giorno e della notte, il sostegno della vegetazione, l’amico dell’uomo: quindi solo il Massone sapiente sa la ragione per la quale il Sole è posto al “centro” di questa bella sala>>.
Il “centro” svolge un ruolo primario all’interno del linguaggio simbolico. Infatti, tra i molti simboli e contrassegni utilizzati dalla massoneria: <<alcuni sono notissimi, altri meno noti. Ma, fra tutti, il più potente è, paradossalmente, quello meno conosciuto agli esterni: un cerchio con al centro un punto … il fine ultimo della società si rifà a questo semplice segno, la cui origine si perde nella notte dei tempi>> (L. Gardner, I segreti della massoneria – L’ombra di Salomone, Newton Compton Editori, Roma 2006, pp. 27).
L’antico simbolo del cerchio con il punto centrale era denominato dagli egizi: <<il “centro” (“l’occhio”) e lo si immaginava presente là dove era conservato il più grande di tutti i segreti>> (Ivi, p. 338). Ad esso si riallacciano le cosiddette <<ruote solari>> e <<swastike>>, <<rosa camuna>> compresa, nel cui centro agirebbe, secondo il simbolismo vedico, l’“energia divina”, <<Agni>>, che muoverebbe il tutto (aristotelicamente) senza muoversi, in virtù della sua misteriosa essenza superiore (cfr R. Guénon, Il simbolismo della croce, Luni Editrice, Milano 2002, p. 155).
Il simbolo del centro, o dell’uovo primordiale, 8 richiama altresì la cosmogonia egizia, basata sulla centralità e divinità del sole, il quale governa e lega a sé le dimensioni visibili ed invisibili del mondo in virtù del suo ruolo altamente “carismatico”. Gli stessi pitagorici alludevano al simbolo solare egizio del centro, quando celebravano i riti segreti in onore del “sacro fuoco”, che il pitagorico Filolao cercò di trasformare in una rudimentale immagine razionale della realtà, ipotizzando il sole fermo e la terra in rotazione intorno ad esso. Finché, nella ambigua epoca rinascimentale, Copernico riportò il modello eliocentrico alla ribalta.
Nella sua opera, Copernico cita direttamente sia il pitagorico Filolao che Ermete, il Trismegisto, per dar credito ad una tesi del tutto inconcepibile secondo i canoni della logica classica che pone il fondamento della verità nell’ente reale. Infatti prove scientifiche a favore dell’eliocentrismo lì per lì non ce n’erano. Solo argomenti più sconclusionati di quelli che si volevano contestare. Argomenti che vennero puntualmente smentiti e modificati dalla stessa scienza, nel momento in cui tutta la comunità scientifica mondiale si impegnò a dimostrare la validità di un’idea astratta, tuttavia già accettata e presa per buona sulla base di argomentazioni ideologiche.   
Infatti, <<Non furono nuove scoperte astronomiche o osservazioni del cielo più esatte e minuziose a motivare Copernico a rifiutare l’astronomia geocentrica di Tolomeo e a sostituirla con un sistema eliocentrico … quando infatti concludeva che l’astronomia tolemaica non poteva essere corretta, lo faceva in gran parte per ragioni diverse da prove fisiche. Forse, l’inizio della rivoluzione scientifica non fu tanto scientifico, o almeno non nel modo in cui noi intendiamo comunemente la parola “scientifico”>> (K. Ferguson, La musica di Pitagora, Longanesi, Milano 2009, p. 260, corsivi nostri).
Se dunque consideriamo il modello eliocentrico come il baluardo della religiosità naturalistica e della nuova immagine (massonica) del mondo, ovvero come una maschera del culto solare, allora il miracolo di Fatima può intendersi come una teofania sostanzialmente contraria ad una teoria che, sotto la parvenza scientifica, nasconde un cuore «egizio». Cuore che celebra il sole come l’anima mundi, Helios, Heros, Horus. Ovvero, la <<bestia>> corrispondente al 666. Nella cabala tale numero rappresenta il sole.  
L’aspetto esoterico del sole è invece celebrato per sommi capi nel capitolo XVII del Poimandres, ove Ermete parla di “sfere planetarie”, lasciando chiaramente intendere la loro natura spirituale, più che sensibile. Infatti, le sfere planetarie di cui parla il Trismegisto citato da Copernico, al pari di “gironi” infernali, sono composte dai <<cori dei demoni>>, schierati in assetto militare, pronti ad intervenire ed interagire con la dimensione storica. In concreto, afferma il Trismegisto, questi demoni sottoposti allo spirito-sole centrale: <<hanno ricevuto in sorte il potere sulle vicende e sui disordini della terra. Vi operano ogni genere di scompiglio, per le città e le popolazioni in generale, e per ciascun individuo in particolare, ecc.>>.


Nel miracolo di Fatima possiamo allora scorgere da una parte un segno rivolto ai cultori del sole che ancora si riuniscono nelle segretezze delle cerchie iniziatiche. Dall’altra, come un invito a ricercare un modello del mondo più in linea con la Parola e con il «senso comune» di quanto lo sia quello proposto dalla scienza moderna. Le Sacre Scritture, infatti, fedeli interpreti della natura, la descrivono così com’è, e come ci appare. Non è vero, come diceva Galilei nelle «Lettere Copernicane», che la Bibbia contraddice la natura.
È vero piuttosto che la Bibbia contraddice l’immagine che l’uomo si è voluta costruire del mondo naturale, da un certo periodo in poi, sulla base di un’ideologia eretica, fondata sull’identità, sottintesa, di scienza e dottrina. San Paolo ci ammonisce ripetutamente circa la possibilità di essere ingannati da false immagini del mondo, per colpa di una fede distorta (cfr Col 1,8; Rom 1, 20,22). Se invece il volere di Dio è effettivamente quello di «ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (Ef 1,10) e di centrare la totalità degli esseri nella «vera realtà che è Cristo» (Col 2,17), allora diventa un “dovere” cristiano sostenere con la forza della fede e della vita di grazia, prima ancora che con i pur necessari argomenti di ragione, l’immagine cristocentrica del mondo. (2)
Immagine metafisica concreta (3), che trascende quella scientifico-pitagorica (4), e che pone al centro del mondo, non il sole rinascimentale, né tanto meno la terra, o l’uomo. Ma il vero e solo principio di tutte le cose (cfr Col 1, 16): Gesù Maestro, Verità, Via e Vita. Infatti, mentre Cristo è già uno col Padre e con lo Spirito Santo in ordine alla sua divinità, incarnandosi ha unito a sé la natura umana, sintesi di materia e di spirito: «In tal modo tutto l’Universo è ricapitolato in Cristo in una sintesi mirabile e divina». (5)



Note
1)
Cfr A. Borelli, «Fatima: Messaggio di tragedia o di speranza?», Associazione Luci sull’Est, Roma 2004, pagine 38-42.
2) Cfr G. Biffi, «Il primo e l’ultimo - Estremo invito al cristocentrismo», Piemme, 2003, pagina 17: «Il cristocentrismo di cui vogliamo trattare noi è il convincimento che nel Redentore crocifisso e risorto - pensato e voluto per se stesso entro l’unico disegno del Padre - è stato pensato e voluto tutto il resto; sicchè, sia per quel che attiene alla dimensione creaturale, sia per quel che attiene alla dimensione redentiva ed elevante, ogni essere desume da Cristo la sua intima costituzione, le sue intrinseche prerogative, la sua sostanziale ed inesorabile vocazione».
3) «La metafisica è un sapere di ciò che è strettamente ‘reale’; di ciò che è, ‘così’ e ‘come’ effettivamente è; e non di una ‘nozione’ più o meno vaga e astratta», T. Melendo, «Metafisica del concreto», editrice Leonardo da Vinci, 2000, pagina 20.
4) «Se c’è un tipo di conoscenza che tende all’astrattezza e che talvolta deve disinteressarsi di proposito dei problemi della vita è proprio è proprio la conoscenza scientifica non - metafisica (…). Gli aspetti importanti della realtà sono quelli che vengono colti dal senso comune prima, e poi dalla riflessione metafisica; non certamente dalla matematica, malgrado quello che alcuni matematici si ostinino ancora a pensare e a dire», A. Livi, «Prefazione», in T. Melenso, citato pagina 10.
5) Cfr AA VV, «L’eredità cristocentrica di don Alberione», edizioni Paoline, 1989, pagine 259, numero 139.

domenica 12 dicembre 2010

SCIENZA E GRAZIA



Tra i molteplici personaggi rappresentativi del XX secolo, Einstein e padre Pio hanno svolto un ruolo del tutto particolare, anche se espresso negli ambiti diversi della scienza umana e della sapienza divina. Non sarebbe nemmeno possibile un raffronto fra essi, vista la disparità delle categorie in gioco. Intendiamo tuttavia utile abbozzare un rapido raffronto, non solo per evidenziare l’erronea la pretesa degli scientisti, più che degli scienziati, di trovare nella scienza razionale le linee esclusive per giungere alla soluzione di ogni problema e speranza umana. Ma anche per richiamare uno dei principi paolini che più stanno a cuore ai credenti. Ossia, il <<recapitulare omnia in Christo>> (Ef 1, 10), ricondurre ogni cosa in Cristo, “Via unica per andare al Padre”, nonché depositario di <<tutti i tesori della sapienza e della scienza>> (Col 2, 3).

Balza subito agli occhi allora che la scienza moderna non rappresenta una condizione necessaria per acquisire la Sapienza <<che è un’emanazione della potenza di Dio>> (Sap 7, 25) e che pertanto costituisce un dono gratuito della grazia divina. È molto probabile infatti, senza offesa per il santo, che Padre Pio ignorasse del tutto la teoria di Einstein sullo spazio-tempo e le “delizie” relative al tensore di Riemann-Christoffel. Eppure, egli era in grado di svolazzare a piacere nel “cronotopo” di Minkowski faticosamente indagato da Einstein, pur restando rinchiuso nella sua cella in Monte Rotondo. Egli stesso confidò: <<La notte vado sempre girando. Non c’è bisogno dell’obbedienza dei superiori>> (in G. Martinetti, Le prove dell’aldilà, Rizzoli, Milano 1990, p. 121), alludendo alle sue esperienze sulla bilocazione.

I viaggi di padre Pio erano istantanei, non avevano durata e gli consentivano di trovarsi immediatamente nel luogo d’arrivo, anche a migliaia di chilometri di distanza, violando così i “principi primi” della teoria della relatività ristretta. Il santo si presentava con un corpo del tutto simile a quello rimasto nel convento del Gargano. Conversava, pregava, o assisteva silenziosamente l’interlocutore, manifestando talora la sua “visita” con il famoso effluvio di profumo. Libri e libri di testimonianze in proposito.

Benché attestati da santi venerati ufficialmente dalla Chiesa, la scienza in genere sembra nutrire una sorta di timore per questi fenomeni che la contraddicono. Li stigmatizza, relegandoli direttamente nell’ambito della superstizione, senza indagarli seriamente. La totalità dei santi dotati di doni mistici affermano invece la realtà del fenomeno mistico della bilocazione. Fenomeno che non consiste nel vedere qualcosa a distanza come nell’evanescenza di un sogno o come un film proiettato su uno schermo lontano. Ma nell’immergersi concretamente nelle coordinate fisiche del luogo visitato, ben sapendo che il corpo materiale è rimasto altrove. Inoltre, durante la bilocazione, forte è la consapevolezza del mistico di essere in un altro corpo, del tutto simile a quello carnale ed in un certo senso ad esso complementare.

I santi mistici dunque hanno sperimentato già in vita la realtà di quel <<corpo celeste>> nel quale, in virtù del potere redentivo di Cristo <<tutti saremo trasformati>> (1 Cor 15, 49-51). Secondo san Tommaso, questo nuovo corpo non si corrompe, non invecchia, non soffre. È agile e può spostarsi nello spazio in moto rapidissimo. È dotato di sensi superiori. È leggero e sottile, del tutto soggetto alla volontà. È in grado di attraversare la materia solida. Può apparire e scomparire a piacimento. Rimane giovane per sempre, non è soggetto a bisogni fisici di alcun tipo, né tantomeno ad appetiti o istinti di vario genere (S. Th. Suppl. 82, 1, 6 e sgg).

I santi che hanno sondato misteriosamente la realtà divina pur essendo ancora immersi nella realtà terrena, più che da una grande cultura o genialità intellettuale, sono accomunati da una fondamentale caratteristica evangelica: la semplicità di cuore, tanto cara a Gesù. Che infatti esclamò: <<Ti benedico o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli …>> (Mt 11, 25). E sulla stessa linea san Paolo aggiunse che: <<Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti … perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio>> (1 Cor 1, 27-29).

Per questa predilezione divina, e non per le loro doti intellettuali o culturali, i santi sono stati in grado di superare le più inflessibili leggi della natura, pur senza conoscerle, sperimentando così che davvero: <<La sapienza è il più agile di tutti i moti; per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa>> (Sap 7, 24). È pertanto del tutto probabile, per non dire certo, che essi non sarebbero stati nemmeno in grado di spiegare secondo le linee della ragione terrena la “metodologia” attraverso la quale riuscivano a slacciarsi dalle ferree leggi della materia impenetrabile e del tempo che scorre irreversibilmente dal passato verso il futuro. Avrebbero tuttalpiù confermato la nota regola ascetica che pone il distacco interiore da questo mondo, e dalla gabbie mentali imposte dalla scienza dominante, come condizione necessaria per innalzarsi verso le perfezioni eterne della realtà divina.

D’altra parte, all’ignoranza dei santi circa la scienza moderna corrisponde quella degli scienziati non solo riguardo alla religione, in particolare quella cattolica. Ma anche nei confronti della ben certa realtà trascendente, della quale questa non è che un confuso e transitorio riflesso. Non per niente sant’Agostino già ai suoi tempi annotava che:<<Le divine Scritture insegnano a evitare e irridere non tutti i filosofi, ma i filosofi di questo mondo. C’è infatti un altro mondo, lontanissimo da questi occhi, che l’intelletto di pochi sani riesce a vedere, come afferma lo stesso Cristo, che non dice: Il mio Regno non è del mondo, ma: Il mio Regno non è di questo mondo>> (De ordine, 11, 32).

Sta di fatto che il grande Einstein non riuscì a percepire minimamente la presenza di questo “altro mondo” definitivo e perfetto, semplicemente perché non credeva che la fede sia in grado arricchire enormemente la ragione e non certo di mortificarla. Questa sua chiusura verso la trascendenza ha reso la sua dottrina scientifica un riflesso del suo panteismo cosmico all’interno del quale restò come relegato. E nel quale relegò i suoi epigoni. Egli dunque non entrò in “contatto” con la dimensione divina e con quel Dio nel quale peraltro non credeva secondo i corretti canoni del cristianesimo. Ebbe forse altri tipi di “contatti”. Upton Sinclair riferisce infatti che Einstein partecipò ad una seduta spiritica, durante la quale riuscì in assenza del medium a far sollevare un tavolino, dimostrando così di possedere particolari doti medianiche, se non proprio di essere egli stesso il medium (L. Talamonti, Universo proibito, Mondadori, Milano 1971, p. 285).

Sembra proprio allora che più delle equazioni, più dei diagrammi e delle eleganti formalizzazioni matematiche di Einstein, possano le tradizionali pratiche di pietà (santa Messa, Sacramenti, Rosario) tanto raccomandate da padre Pio, ma del tutto estranee ai protocolli della scienza induttiva. Già Galilei d’altronde sulle linee del cardinal Baronio affermò che le Sacre Scritture, e la religione, servirebbero unicamente per farci andare in cielo, ma non per dirci come va il cielo. Di conseguenza, la scienza galileiana, essendo di principio estranea alla Parola di Dio e circoscritta alla descrizione, ma non alla comprensione, della realtà naturale, non serve a farci entrare nel regno dei cieli. La sua utilità è allora puramente mondana. Non consente all’uomo di aprirsi alla trascendenza. Non lo eleva spiritualmente, non gli permette di sviluppare armonicamente la sua personalità migliorando nel contempo la società. Né tantomeno gli insegna ad essere umile di fronte a Dio ed agli altri. La scienza gratifica la persona materialmente, attraverso le pur mirabili ed utili scoperte della tecnica, tuttavia non prive di risvolti negativi. Il “bene” della scienza, infatti, come quello della famosa mela, sembra essere “umano, troppo umano”, poiché purtroppo sempre associato al “male”.