venerdì 5 novembre 2010

“IL PIFFERAIO MAGICO” DI EINSTEIN


Sottolineiamo la velata presenza all’interno di una teoria scientifica, al di là dei suoi contenuti specifici, di un risvolto di innegabile consistenza, e che investe l’inscindibile relazione che collega l’opera dello scienziato alla sua ideologia[1]. Infatti, come se scienza e matematica costituissero un veicolo per trasmettere contenuti che le trascendono, le convinzioni di natura filosofica degli scienziati risultano in qualche modo trasposte ed inserite all’interno delle loro enunciazioni formali, non sempre in modo evidente.
Questa tendenza a trasmettere attraverso il sistema della scienza personali concezioni del mondo costituisce la caratteristica primaria del pitagorismo, o se si vuole della mentalità iniziatica. Che ovviamente non si è estinta, ma si evidenzia altresì al giorno d’oggi nei settori culturali più disparati. Nell’ambito della fisica moderna, ad esempio, al di sotto dei raffinati assetti formali, è presente un carattere di fondo che confluisce in una visione misticheggiante della realtà, di tendenza panteista ed eraclitea[2].
Per dimostrare quanto affermato, prenderemo in considerazione alcune significative dichiarazioni di Albert Einstein, il più famoso scienziato dell’epoca moderna, che rientrano nella sfera delle proprie concezioni personali, ma che riecheggiano anche nelle sue opere strettamente scientifiche, per lo meno come premesse. Spesso, infatti, lo scienziato tedesco nei suoi scritti è solito unificare due aspetti tipici del sapere, di per sé differenziati: misticismo e razionalismo. Mistica e ragione hanno infatti caratterizzato e determinato la sua personale visione del mondo, generalizzata e tradotta in dottrina scientifica. La sua fede nella religione cosmica, nel dio di Spinoza[3] per intenderci, lo ha portato ad esaltare la dimensione naturale e relativa della realtà, nella quale intendeva ricercare le tracce eterne di una presunta divinità, tuttavia senza persona.
Può essere utile ricordare che l’esaltazione della legge cosmica dell’eterno divenire, alla quale secondo questa linea interpretativa sarebbe soggetta la totalità degli enti, sottintende un’inevitabile svalutazione dell’essere individuale e della realtà presente. Einstein confermò tale implicazione, affermando che: <<Mi sento talmente parte di tutto ciò che vive che non m’importano per niente l’inizio e la fine dell’esistenza concreta di una singola persona in questo flusso eterno>>[4].
Questa fredda dichiarazione, che allude all’esistenza di una regola generale (flusso eterno) alla quale ogni individuo sarebbe inevitabilmente soggetto, evidenzia un tipico aspetto della mentalità di Einstein, e dei pitagorici in genere, riscontrabile anche nella sua concezione scientifica. E che in sostanza consiste, nell’ambito della conoscenza, nel privilegiare il formalismo e la legge matematica precostituita, dunque la deduzione, rispetto al contesto induttivo.
È indicativa in tal senso la risposta, che con buona volontà valutiamo ironica, data dallo scienziato tedesco ad uno studente che gli chiedeva come avrebbe reagito se la sua teoria della relatività generale non fosse stata confermata sperimentalmente. Einstein rispose: <<In tal caso mi spiacerebbe proprio per il buon Dio: la teoria è giusta!>>.[5]

Determinismo pitagorico
In senso generico, si può addirittura rilevare, nella concezione einsteiniana, come un ineluttabile prevalere della legge analitica sull’ambito naturale. E questo aspetto è assai significativo, dal momento che proprio il predominio del “dover essere” sull’”essere” costituisce un luogo tipico delle utopie[6]. Ne è esempio la teoria eliocentrica, nella quale, pur constatando i sensi il movimento del sole e la quiete terrestre, si afferma esattamente il contrario, dal momento che il modello teorico, ideologicamente precostituito, viene ritenuto superiore alla natura stessa. Infatti, <<perché si possa accettare l’ipotesi copernicana è necessario far violenza ai sensi. Dunque è necessario che “gli occhi della ragione” si aprano. Questa fede è pitagorica, non cristiana>>[7].
Ripetutamente, Einstein dichiarò il rifiuto della tesi dell’immortalità dell’anima e la sua personale tendenza a concepire l’uomo esclusivamente nella stretta dimensione naturale, negando senza mezzi termini l’idea di un Dio Padre, disposto a mettersi in comunione con l’uomo, per accoglierlo in una beatitudine infinita. A questo riguardo egli, tra l’altro, dichiarò senza ombra di dubbio: <<Non credo in un Dio personale e non ho mai nascosto questa mia convinzione, anzi l’ho espressa chiaramente… L’immortalità? Ce ne sono di due tipi. Una vive nell’immaginazione delle persone, ed è perciò un’illusione. C’è un’immortalità relativa che può mantenere la memoria di una persona per qualche generazione. Ma c’è una sola vera immortalità, dal punto di vista cosmico, ed è l’immortalità del cosmo stesso. Non ce ne sono altre>>[8].
Questa visione, più che altro interiore e misticheggiante dell’universo, sembra aver indotto Einstein a concepire un’immagine scientifica che la rispecchiasse. Egli infatti non solo non disgiunge le proprie convinzioni private dall’aspetto formale della propria teoria, ma ci tiene a generalizzare questa regola, dal momento che afferma: <<Ribadisco che è una religiosità cosmica il motivo più nobile della ricerca scientifica>>[9].
Questa premessa, in un certo senso metodologica, suggerisce che sia la teoria della Relatività Ristretta che quella Generale possano considerarsi sostanzialmente come dottrine filosofiche, dal momento che al loro interno si è come inserito l’ideale che le ha ispirate, ovvero: il credo nel panteismo cosmologico. Queste teorie, pertanto, pur se formulate in rigoroso ed inoppugnabile linguaggio geometrico, rappresentano il fiore all’occhiello di un’ideologia fondata sull’immanenza. Dunque, tutta tesa alla ricerca di fattori interni alla dimensione reale, che ne giustifichino e ne rendano comprensibile l’esistenza. E come a conferma di tale prospettiva, lo scienziato tedesco dichiarò: <<Nessuna idea concepita dalla nostra mente è indipendente dai nostri cinque sensi>>[10], intendendo così escludere di principio ogni possibile relazione fra Dio e l’uomo.
Secondo le linee tracciate dalla filosofia einsteiniana, l’universo appare come regolato da immutabili leggi matematiche le quali, quanto più si generalizzano, tanto più si idealizzano. Einstein però non chiarisce da dove si originino tali leggi, quale ne sia la fonte, o perché siano formulabili in questo modo particolare, e non in un altro.
Anzi, proprio la loro intelligibilità costituisce, a suo parere, il lato incomprensibile del mondo naturale. In quest’ottica di fondo, l’universo intero non può che obbedire e sottostare a leggi inviolabili ed eterne che non possiedono nessuna matrice logica, nessuna causa intelligibile, e che dunque possono essere persino ricollegate al mito, dal momento che: <<Tutto è determinato… da forze sulle quali non abbiamo alcun controllo. Lo è per l’insetto come per le stelle. Esseri umani, vegetali, o polvere cosmica, tutti danziamo al ritmo di una musica misteriosa, suonata in lontananza da un pifferaio invisibile>>[11].
Questa musica suadente e misteriosa, suonata da un “pifferaio magico”, lega tutta la realtà al mito, ed al mito più oscuro, dal momento che come afferma lo scienziato ogni essere vivente è destinato (condannato) a danzare, senza comprenderne il motivo. È chiaro che tale prospettiva, caratterizzata da <<un determinismo astrologico che esclude ogni libertà>>[12], non rappresenta che un’opinione. Tuttavia, il fatto di essere stata espressa da una delle più grandi personalità scientifiche di tutti i tempi, le attribuisce il fondamento e fascino che altrimenti non avrebbe.

Un regno senza Re
Non vogliamo di certo entrare nel merito delle convinzioni personali di Einstein riguardo all’esistenza dell’uomo e della divinità, pur dissentendone. Egli, infatti, alla luce della dottrina cristiana, dimostra di possedere una nozione alquanto oscura e primitiva di Dio, dal momento che giunge ad attribuirgli addirittura la responsabilità di tutte le sciocchezze compiute dall’uomo. Al punto da affermare che: <<la Sua non-esistenza sarebbe la sua unica scusante>>[13].
Al di là di tale sprezzante giudizio, che peraltro ignora l’argomento della libertà umana, e di come egli solo sia la causa del male che compie, riteniamo che proprio a causa di questa visione semplicistica e grezza della divinità, la filosofia einsteiniana non possa che fornire un quadro altrettanto fosco e aberrante del cosmo, caratterizzato da un assolutismo scientifico in cui pare dissolversi, insieme al valore proprio di ogni essere, il senso stesso di un mondo che perennemente esisterebbe di per sé, senza alcuna ragione intima, senza alcuna meta finale. Ma conclusione ancor più grave, senza alcuna possibilità di apertura  verso la dimensione sacra e trascendente.
Nessuna sorpresa dunque se, con l’affermarsi della Relatività, l’universo è divenuto simile ad un complesso labirinto, se non proprio groviglio, matematico, di esclusiva pertinenza della comunità e delle discipline scientifiche. Peraltro, proprio le celebri equazioni di Einstein, basi universali di questo mondo mitizzato, espresse in un linguaggio di certo non accessibile ai “profani”, hanno indotto ad assolutizzare la geometria, esaltandola al punto da ritenerla: <<non solo uno strumento concettuale creato per leggere l’armonia della natura, ma la logica stessa delle sue strutture, il mezzo con cui i concetti basilari di misura si insediano nella moltitudine delle leggi fisiche… La geometria presiede a tutte le regole della natura, quando essa cambia, tutto cambia di necessità>>[14].
Il senso di questa affermazione è notevole, se non esagerato. Esso indica che il formalismo geometrico utilizzato nella teoria di Einstein, viene identificato  addirittura con il fenomeno fisico descritto, fino a prenderne il sopravvento, svuotandolo dunque di ogni consistenza oggettiva. Infatti, se davvero: <<la fisica costituisce un sistema logico di pensiero che si trova in uno stato di evoluzione, e le cui basi non si possono ottenere mediante un qualsiasi metodo induttivo, ma esclusivamente attraverso la libera invenzione>>[15], allora non possiamo pretendere di individuare una realtà ontologica effettiva in entità create “attraverso libere invenzioni”, ed esistenti perciò solo nella “fantasia razionale” dello scienziato.
Dovrebbe peraltro essere chiaro che l’incomprensibilità di alcune fondamentali e famose idee della teoria relativistica – il “secondo principio di relatività”, il continuum quadridimensionale dello spazio-tempo, la sua curvatura, ecc. –, trova origine nella pretesa (di per sé fondata) di voler attribuire un riscontro ed un senso reale ad entità matematiche, che invece, per loro stessa natura, esistono solo nella mente di chi le ha escogitate, unificando, attraverso “libere invenzioni”, ideologia privata, linguaggio formale ed enti reali.
Questa sintesi di dottrina-ragione-realtà, costituisce peraltro l’essenza più intima del pitagorismo iniziatico, adottato dalla metodologia scientifica moderna. Ma è proprio in tale unità che si cela l’insidioso passaggio dal vero del mondo, al verosimile della rappresentazione. Passaggio che spesso comporta l’acquisizione non solo di scienza palese, ma anche di dottrina (materialistica) mascherata.
Per Einstein infatti – al pari del suo amato maestro Spinosa, che non separò Dio dal mondo naturale –, il credo nella religiosità cosmica costituisce un tutt’uno con la sua, forse fin troppo celebrata, opera scientifica. Ed è per questo motivo che tutto l’edificio relativistico, che senza dubbio costituisce una delle più grandi acquisizioni della scienza moderna, è tuttavia come impregnato dall’idea di una “presenza” impersonale, che <<si rivela nell’armonia di tutto ciò che esiste, ma non in un Dio che si occupa del destino e delle azioni degli esseri umani>>[16].
E proprio dalle nebbie di tale prospettiva, non può che emergere l’immagine di un mondo virtuale, senza senso, regolato da un “pifferaio invisibile”, che con la sua arcana musica trattiene “grandi” e “piccoli” all’interno di un regno dissacrato. Senza forma. E senza Re.



[1] R. Hanson afferma che non è mai possibile una “osservazione immacolata” dei fenomeni, poiché gli asserti osservativi che esprimono i dati empirici, sono sempre “carichi di teoria”. In base a questa osservazione, ci sembra possibile penetrare il senso ultimo di una teoria scientifica, che si riveste dei contenuti ideologici dello scienziato, spesso fonte della stessa indagine conoscitiva. Confronta N. R. Hanson, in A. Rebaglia, Scienza e verità – Introduzione all’epistemologia del Novecento, Paravia, Torino 1997, p. 154 e seguenti.
[2] <<La tendenza dominante nella fisica moderna segue Eraclito. Tuttavia, il Logos di Eraclito era una dialettica vaga: un discorso che non si originava dal concreto, né vi ritornava; mentre solo una dialettica concreta [materialistica, ndr] è in grado di cogliere la natura dinamica degli oggetti fisici>>, E. Bitsakis, Basi della fisica moderna, Ed. Dedalo, Bari 1992, p. 23.
[3] <<Credo nel dio di Spinosa che si rivela nell’armonia di tutto ciò che esiste, ma non in un dio che si occupa del destino e delle azioni degli esseri umani>>, telegramma inviato da Einstein a Rabbi Herbert S. Goldstein, <<New York Times>>, 25 aprile 1929, p. 60, col. 4.
[4] Lettera di Einstein a Hedwig Born, 18 aprile 1920.
[5] A. Einstein, Pensieri di un uomo curioso, Mondadori, Milano 1997, p. 124.
[6] Confronta G. Di Bernardo, La ricostruzione del Tempio, Marsilio, Venezia 1996, p. 71 e seguenti.
[7] M. Caleo, Galileo l’anticopernicano, Dottrinari, Salerno 1992, p. 34.
[8] Citato in S. L. Jaki, Dio e i cosmologi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991, p. 66 e nota 17.
[9] A. Einstein, Pensieri di un uomo curioso, citato, p. 112.
[10] Ibidem, p. 119.
[11] Ibidem, p. 110.
[12] Giovanni di Salisbury a proposito della dottrina aristotelica dell’astrazione. In E. Gilson, La filosofia di San Bonaventura, Jaka Book, Milano 1994, p. 11.
[13] A. Einstein, Pensieri di un uomo curioso, citato, p. 109.
[14] F. de Felice, Gli incerti confini del cosmo, Mondadori, Milano 2000, p. 28.
[15] A. Einstein, Pensieri degli anni difficili, Boringhieri, Torino 1965, p. 74.
[16] A. Einstein, Pensieri di un uomo curioso, citato, p. 110.

martedì 2 novembre 2010

“LA CHIAVE DELLA SCIENZA”


                                                                                  
Esiliato nell’isola di sant’Elena, vedendo sfumare inesorabilmente la sua gloria, Napoleone non rimpianse le vittorie militari, le parate o le delizie della corte francese. Ma rimpianse il suono delle campane. Gli argentini rintocchi che scandiscono il fluire delle ore.
Suono del tutto diverso da quello degli orologi comuni, della campanella scolastica o delle sirene delle fabbriche. Suoni questi legati ad un senso puramente terreno del tempo, il chronos.
Il suono delle campane invece ha un che di speciale. Una doppia valenza, terrena e mistica, che richiama sia il divenire che l’eternità. L’immanenza e la trascendenza.
Il classico confronto-scontro fra Chronos e Kayros, tempo ordinario e tempo sacro, a volte si risolve con la manifestazione improvvisa ed incomprensibile del kairos all’interno dello sfuggente chronos.
Le Scritture celebrano questa irruzione istantanea del sacro (ierofania) in termini solenni: <<Il cinque del quarto mese dell’anno trentesimo, mentre mi trovavo tra i deportati sulle rive del canale Chebat, i cieli si aprirono ed ebbi visioni divine>> afferma il profeta Ezechiele ( Ez 1,1).
Con espressioni analoghe, San Matteo, descrive il battesimo di Gesù: <<Ecco si aprirono i cieli e Giovanni vide lo Spirito di Dio scendere, in forma di colomba, sopra Gesù>> (Mt 3, 6).
Altra espressione utilizzata dagli Autori sacri è quella maestosa, in senso cosmologico, di “apertura dei cieli”. Ad esempio, san Luca, nel descrivere la lapidazione di santo Stefano, riporta le ultime solenni parole del martire: <<Ecco io vedo i cieli aperti … e il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio>> (At 7, 56). E san Giovanni, nell’Apocalisse, cerca di esprimere la sua misteriosa esperienza con toni altrettanto grandiosi: <<Dopo ciò ebbi una visione: una porta era aperta nel cielo … Allora si aprì il santuario di Dio nel cielo e apparve nel santuario l’arca dell’alleanza … >> (Ap 4,1; 12, 1).

Il cielo che in un batter d’occhio si apre come un sipario, mostrando agli occhi stupefatti dell’uomo comune la concretezza della realtà divina, richiama non solo il trionfo del kayros sul tempo naturale. Ma anche l’affermazione della materia glorificata ed eterna, sulla materia ordinaria.
Quest’ultima, secondo le indicazioni paoline, verrà trasfigurata, resa incorruttibile ed immortale. Come la materia del corpo di Cristo risorto, il quale appariva e si dileguava nonostante le porte ben chiuse, dietro le quali gli apostoli erano rinserrati per paura degli ebrei.
San Paolo parla di maturazione del tempo ordinario, il chronos che diviene kayros, in ordine alla dinamica salvifica della storia, realizzatasi con la venuta del Cristo: <<Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo figlio nato da una donna per liberare quelli che erano sotto la legge … >> (Gal 4, 4). Cristo stesso confermò il trionfo del tempo sacro su quello ordinario, durante la crocifissione, con le ultime sue parole: <<Consummatum est>>.
Dopo la morte redentrice di Cristo, infatti, il circolo del tempo pagano che perennemente ritorna su di sé è stato spezzato. L’alfa e l’omega, inizio e fine del tempo santificato, corrispondono di fatto alla nascita ed alla risurrezione del Signore, primizia dei risorti, secondo un tragitto che inizia sulla terra e si concluderà nei cieli. Dalla materia grezza a quella divinizzata.

San Paolo ci assicura con parole vibranti circa il mistero della morte, il momento in cui chronos svanirà definitivamente, insieme alla materia corrotta, e l’uomo si troverà di fronte al kayros perenne. In quel momento delicato e tremendo: <<tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio al suono dell’ultima tromba>> (1 Cor 15, 51).
Cristo infatti <<trasfigurerà il nostro misero corpo nel suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose>> (Fil 3, 20, 21). Di conseguenza, quella stessa materia che oggi è d’impaccio, che lega alla terra, ai mali, ai piaceri di un momento, non sarà più la stessa. Si semina un corpo corruttibile, risorge un corpo immortale, scrive ancora l’Apostolo riguardo alla realtà trascendente.
San Tommaso delinea alcune caratteristiche del corpo celeste che ha in Cristo l’esemplare perfetto. Il corpo “cristificato” non si corrompe, non invecchia, non soffre. È agile e può spostarsi nello spazio in moto rapidissimo. È dotato di sensi superiori. È leggero e sottile, del tutto soggetto alla volontà. È in grado di attraversare la materia solida. Può apparire e scomparire a piacimento. Rimane giovane per sempre, non è soggetto a bisogni fisici di alcun tipo, né tantomeno ad appetiti o istinti di vario genere (S. Th. Suppl. 82, 1, 6 e sgg).
Una dimostrazione delle capacità di questo “supercorpo”, in grado di sfuggire alle leggi ordinarie dello spazio-tempo e di addentrarsi nella gloria della realtà celeste, è fornita dai santi mistici, i quali già in questa vita riescono in modo misterioso a “smaterializzarsi” e superare le barriere della materia rigida. Gli esempi in proposito super documentati e più che attendibili perché accertati dall’autorità ecclesiastica sono migliaia. Fra i tanti, uno singolare.
Don Bosco il 21 luglio 1862 pur stando fisicamente a S. Ignazio, circa 40 km da Torino, vide tre suoi giovani dell’Oratorio disertare la Messa per andare a fare il bagno nella Dora. Mentre sguazzavano don Bosco riuscì a “materializzare” alcuni forti ceffoni che lasciarono il segno sulla schiena dei tre, che riconoscendo il “tocco” si precipitarono nell’Oratorio e confessarono la loro inosservanza (Memorie biografiche del ven. Giovanni Bosco, 7 vol., p. 224 e sgg).

I santi dotati di doni mistici, più che gli illustri fisici, hanno superato le leggi naturali, sperimentando che davvero <<La sapienza è il più agile di tutti i moti; per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa>> (Sap 7, 24). Ma è del tutto probabile che essi non sarebbero stati in grado di spiegare secondo i canoni razionali in che modo riuscissero a slacciarsi a piacimento dalle ferree leggi della materia impenetrabile e del tempo irreversibile.
D’altra parte, non è che gli scienziati sappiano dirci qualcosa in più, riguardo al mistero della materia, del tempo o dello spazio. Neppure il grande Einstein, che ha cercato di definire secondo i canoni della scienza il senso più profondo di queste classiche categorie.
La differenza che egli ha messo in risalto riguardo al tempo è che dal punto di vista classico gli eventi si rincorrono nello spazio e nel tempo come una pellicola cinematografica proiettata su di uno schermo, nella quale si vede scorrere un fotogramma per volta. Secondo la teoria della relatività invece i fenomeni sono individuabili attraverso il cronotopo di Minkowski, nel quale staticamente coesistono presente, passato e futuro. Il divenire non è un attributo dell’universo, ma una nostra sensazione dovuta alla limitatezza dei nostri sensi. Una conseguenza del peccato originale, direbbero altri. Il tempo pertanto esiste nella sua interezza. Un po’ come se la pellicola cinematografica, con tutti i suoi fotogrammi, venisse stesa dall’inizio alla fine, senza possibilità di distinguere il passato dal presente e dal futuro in questo continuum naturale.
Questa pur grande concezione scientifica è tuttavia segnata da un limite dal quale nemmeno Einstein riuscì a sfuggire, restando imprigionato all’interno di una raffigurazione ideale, costruita secondo regole matematiche ben definite e strutturate. Rigorosamente estranee alla Sapienza con la quale Dio ha costruito il mondo, disponendo il tutto con <<misura, numero, peso>> (omnia in numero, mensura, pondere disposuisti) (Sap 11, 21).  È vero che in genere i grandi scienziati nelle loro formulazioni escludono di principio ogni riferimento alla Sapienza con cui Dio ha costruito il mondo. Ma è ancor più vero che i santi, anche se ignorano le formalizzazioni della scienza accademica, riescono a superare le leggi fisiche a piacimento. Più delle equazioni e dei diagrammi, possono la santa Messa ed i rosari. Più della scienza, può la virtù. 
Padre Pio ad esempio, contemporaneo di Einstein e del tutto ignorante della teoria della relatività e del calcolo tensoriale (supponiamo, senza offesa per il santo), svolazzava continuamente nello spazio-tempo, continuando a restare rinchiuso nella sua cella in Monte Rotondo. Egli stesso confidò: <<La notte vado sempre girando. Non c’è bisogno dell’obbedienza dei superiori>> (in G. Martinetti, Le prove dell’aldilà, Rizzoli, Milano 1990, p. 121), alludendo alle sue esperienze sulla bilocazione. 
I viaggi di padre Pio erano istantanei, non avevano durata e gli consentivano di trovarsi immediatamente nel posto d’arrivo, anche a migliaia di chilometri di distanza. Il santo si presentava con un corpo del tutto simile a quello rimasto nel convento del Gargano. Conversava, pregava, o assisteva silenziosamente l’interlocutore, manifestando semmai la sua “visita” anche con il famoso effluvio di profumo. Libri e libri di testimonianze in proposito. 
Diversi mistici attestano che la bilocazione non consiste nel vedere qualcosa a distanza, come un film proiettato su uno schermo, o come nell’evanescenza di un sogno. Ma nell’immergersi concretamente nel luogo visitato, ben sapendo che il corpo fisico è rimasto in un luogo diverso. Forte infatti è la consapevolezza del mistico di essere in un altro corpo, del tutto simile a quello carnale ed in un certo senso ad esso complementare. Il corpo etereo e celeste di cui parlavamo in precedenza, che la grazia divina concede di sperimentare ad alcune persone. Accomunate per lo più da una caratteristica: la semplicità di cuore. O se vogliamo, l’ignoranza scientifica.
 Scienza vs mistica? Confronto impossibile, perché categorie poste su livelli diversi. La scienza infatti corrisponde alla natura, la mistica al sacro. Ma il sacro sovrasta la natura, pur penetrandola, perché il sacro permane, mentre invece “cambia la scena di questo mondo”. Pertanto, anche se distinte, natura e grazia non sono fra loro separate. I fenomeni mistici infatti sono pur sempre inseriti nella realtà fisica. Viceversa, alcuni fenomeni indagati dalla fisica moderna sconfinano in prospettive borderline, per non dire incomprensibili e contraddittorie. 
Ad esempio, oltre all’effetto tunnel delle particelle alfa (in grado di attraversare incomprensibilmente barriere di potenziale ad esse interdette), molte perplessità ha suscitato la disuguaglianza di Bell, │Δ X│≤2, ottenuta sulla base dell’esperimento immaginato da Einstein, Podolsky e Rosen (EPR), come conseguenza dei fondamenti della meccanica quantistica.
Il nucleo concettuale dell’esperimento formalizzato da Bell è il seguente. Se le premesse della meccanica quantistica sono vere, allora due fotoni emessi nello stesso istante in direzioni opposte da una sorgente Δ devono continuare a rimanere “in qualche modo” collegati, pur essendo lontani. Si verificò in seguito che se ad una particella veniva cambiato il senso di rotazione (spin), anche l’altra particella invertiva istantaneamente ed indipendentemente dalla distanza dalla prima il proprio senso di rotazione, manifestando come chiosò lo stesso Einstein <<inquietanti passioni a distanza>> (in S. L. Jaki, Dio e i cosmologi, LEV, Città del Vaticano 1991, p. 150). 
In effetti, la disuguaglianza di Bell esprime davvero un significato sconcertante per la fisica, perché apre le porte all’irrazionalismo, contraddicendo le basi stesse che sostengono la metodologia scientifica, nelle quali non trova spazio alcun riferimento alla trascendenza, né tanto meno alla mistica. 
La disuguaglianza di Bell sembra dimostrare proprio questo. Ossia, un collegamento extra sensoriale fra le particelle che hanno interagito tra loro e che continuano a mantenere una memoria o una “presenza” reciproca l’una nell’altra. Come se entrambe avessero una coscienza comune e fossero in grado di influenzarsi in modo scambievole, comunicando istantaneamente (telepaticamente?), nonostante la notevole distanza che le separa. La diseguaglianza di Bell rimette dunque in gioco quelle aperture spirituali e trascendenti escluse dai protocolli della scienza induttiva, fondata sulla speranza materialistica di spiegare il tutto nell’ambito dell’immanentismo. 
Per spiegare le stranezze al limite della paranormalità indicate dalla disuguaglianza di Bell, i fisici “ortodossi” hanno messo in moto una sorta di “fantasia formalizzata”, una idealizzazione matematica in grado di rendere ancora più incomprensibile l’evento delle particelle che comunicherebbero fra loro “telepaticamente”. È questo un procedimento utilizzato spesso nella fisica quando ci si trova di fronte ad un “qualcosa” che non rientra nei canoni ordinari. Si introducono allora nuovi termini (forze, campi vettoriali, cronotopo, stringhe, ecc), nuove astrazioni. Si “esoterizza” insomma il linguaggio formale, restringendone l’usufrutto ai soli addetti ai lavori nascondendo così i buchi della tovaglia nuova. Difetti di fabbrica, sempre possibili nell’ambito delle maestranze umane, per quanto impegnate nella nobile, complessa e privilegiata arte della ricerca scientifica. Un po’ come fece Newton, quando estrasse dal baule pitagorico il concetto di “forza” gravitazionale, per spiegare l’azione a distanza fra i corpi. Concetto che suscitò non pochi dubbi e perplessità, dal momento che introduceva nella fisica ipotesi indimostrabili estranee alla stessa. 
Infatti, in seguito, il concetto di “forza” così come la intendeva Newton venne abbandonato e sostituito con quello ancora più astratto e formale di “campo vettoriale”. In tal modo, la realtà viene trasposta nel piano dell’astrazione formale. Gli aristotelici chiamavano questo errore: metabasis eis allo genos. Confondere una categoria con l’altra. In questo caso, identificare, nell’ottica razionalista in cui Hegel si muove, il reale con il razionale. La fisica con la matematica. 
Di fronte a questo complesso e contraddittorio dibattito, fra reale e razionale, realismo ed antirealismo, interno alla meccanica quantistica risuona nel cuore dei semplici il monito lanciato da Gesù nei confronti dei dottori della legge del suo tempo, colpevoli di aver tolto <<la chiave della scienza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito>> (Lc 11, 52). Al tempo di Cristo, non esisteva ancora la figura dello scienziato moderno, saccente, vanesio, cocciutamente agnostico. In forma estrema, Odifreddi. O moderata, Zichichi. Tuttavia, nell’antica Palestina i precursori di questi “pericolosi” personaggi contemporanei, così pieni di sé e delle proprie cognizioni da non abbassare la testa nemmeno di fronte a Dio, erano gli scribi, i sacerdoti ed i dottori della Legge. Molti dei quali detenevano una religiosità falsa ed ipocrita, ed una scienza surrettizia collegata alla tradizione magica egizia, caldea e babilonese. Qualche secolo dopo sant’Agostino scriverà  in proposito:<<Le divine Scritture insegnano a evitare e irridere non tutti i filosofi, ma i filosofi di questo mondo. C’è infatti un altro mondo, lontanissimo da questi occhi, che l’intelletto di pochi sani riesce a vedere, come afferma lo stesso Cristo, che non dice: Il mio Regno non è del mondo, ma: Il mio Regno non è di questo mondo>> (De ordine, 11, 32). Cristo peraltro non ha mai fornito nessuna seppur minima indicazione positiva nei confronti della scienza di questo mondo, che pure è divenuta così importante ai nostri giorni. Non ha mai incoraggiato i suoi apostoli allo studio razionale della realtà, nemmeno ha mai fatto riferimento alla geometria, alla ragione matematica, all’esigenza di una metodologia sperimentale per giungere alla salvezza della propria anima. Come invece ha fatto Pitagora. 
Cristo ha affermato in modo perentorio di cercare innanzitutto il Regno di Dio, estraneo a questo mondo, estraneo alla scienza. Inoltre, indicò se stesso come la Verità, la Via e la Vita da comprendere, seguire, imitare per raggiungere la conoscenza e la salvezza. Ed ammonì quei falsi dottori che con la loro scienza surrettizia impedivano il passaggio dalla conoscenza del mondo a Dio, dalla cosmologia alla teologia. Togliere la chiave della scienza, corrisponde infatti a rimuovere ogni riferimento a Dio nella ricerca razionale, nonostante la sua presenza si mostri proprio nelle opere del mondo naturale: <<le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute>> (Rom 1, 20-25). Chi non segue questa linea, cambia <<la verità di Dio con la menzogna>> e, come afferma ancora san Paolo, è abbandonato da Dio a quelle passioni infami che ai nostri giorni stanno dilagando come non mai. A dimostrazione della grande apostasia che si sta diffondendo in ogni ambito della nostra società tecnologica e desacralizzata. Anche attraverso il tramite di una scienza sempre più astratta, complicata, sempre meno corrispondente al reale, incapace di spiegare dove si stia dirigendo. Come un torpedone che avanza tra il vociare dei passeggeri tra le dune del deserto sperando di ritrovare casualmente la via giusta.