lunedì 4 ottobre 2010

Il SEGRETO DI GALILEI (Seconda parte)


Simbologia rosacruciana

Nel febbraio del 1439, una delegazione bizantina giunse a Firenze per partecipare al concilio indetto per l’unificazione delle Chiese d’Occidente e d’Oriente. In tale circostanza, Cosimo de’ Medici ebbe modo di conoscere un consigliere di Giovanni VIII Paleologo, il basileus, Giorgio Gemisto (1360-1452) profondo intenditore del neoplatonismo, e soprattutto della Cabala iniziatica. Il potente Cosimo restò talmente influenzato dall’incontro con il Gemisto al punto da voler ricreare nella sua corte un’accademia idonea a sviluppare le idee neoplatoniche ed ermetiche giunte dalle sponde orientali.

L’occasione propizia, si presentò intorno all’anno 1460, quando venne consegnato al Principe un manoscritto reperito in Macedonia, comprendente quattordici dei quindici libri del Corpus Hermeticum. L’incarico della traduzione di questo misterioso testo venne affidata a Marsilio Ficino (1433-1499), il quale, dopo le opere di Platone, lo tradusse in pochi mesi intitolandolo: Pimandro.

Ficino, nella dedica rivolta a Cosimo de’ Medici, esaltò il contenuto dell’opera appena tradotta, riconducendola alla rivelazione di Ermete Trismegisto, da lui considerato addirittura superiore a Platone e di origini mitiche: <<All’epoca in cui nacque Mosè prosperava Atlas l’astrologo, fratello di Prometeo il medico e zio materno di Mercurio l’Antico, il cui nipote fu Mercurio Trismegisto>>.

Poco prima della cacciata degli ebrei dalla Spagna, avvenuta nel 1492, Pico, componente della cerchia fiorentina, aveva cercato di interpretare in senso cristiano la Cabala, sostenendo che essa fosse conferma della verità del cristianesimo, e che in essa fossero celate le chiavi per comprendere i misteri divini celati nelle Sacre Scritture, così svuotate del loro proprio significato trascendente e ridotte ad una sorta di discutibili libri sibillini.

Uno dei principali fini perseguiti dal movimento settario sorto in terra fiorentina fu quello di ristabilire quello stato di perfezione originaria dell’uomo, perdutosi nelle epoche in proporzione all’affermarsi del Cristianesimo, e riservato esclusivamente a pochi eletti i quali, essendo fatti della stessa sostanza del mondo divino, avrebbero in sé la possibilità di auto-redimersi e di giungere alla conoscenza perfetta[1].

Tale programma avverso alla cultura ed al Magistero dominante non poteva che essere attuato attraverso il linguaggio allegorico dei simboli, i quali dicono e non dicono. Ancora infatti oggi un simbolo svela la pienezza dei suoi contenuti soltanto a chi lo riconosce. Infatti, il simbolo è prima di tutto un segno, qualcosa capace di rinviare ad “altro”. Nell’esoterismo, esso diviene il tramite tra universo e uomo, spirito e materia, invisibile e visibile[2]. Mircea Eliade specifica che il simbolo appartiene alla sostanza stessa della vita spirituale, ed anche se è possibile mascherarlo, mutilarlo o degradarlo, tuttavia non sarà mai possibile estirparlo[3].

Secondo il filosofo E. Cassirer, il simbolo non rappresenta un lato marginale del pensiero, <<ma il suo organo necessario ed essenziale>>, dal momento che è attraverso di esso che i concetti si rendono pensabili alla mente. E questo significa semplicemente che: <<il serpente non è solo il segno emblematico del male, ma è malvagio in se stesso; il sole non è semplice segno della luce divina, ma Dio stesso, secondo un rapporto di identificazione “sic et simpliciter”>>[4].

Il “marchio dei delfini”
Il neoplatonismo ermetico adottò l’uso del linguaggio simbolico, per riuscire a sforare le maglie pur sottili del Magistero ecclesiale e diffondersi così a partire da Firenze in tutta Europa. Oltre a Ficino, Pico, Reuchlin, Bruno e Campanella, a nostro avviso aderì alla scuola iniziatica fiorentina anche Galilei. Sembra dimostrare questa appartenenza un passaggio tanto importante, quanto finora sottaciuto della questione galileiana. Si tratta del cosiddetto episodio del “marchio dei delfini”, del tutto trascurato dalle pur importanti analisi realizzate da varie angolature sul caso Galilei, che cercheremo di ricostruire in modo sintetico.

Il padre Riccardi[5], Maestro del Sacro Palazzo Apostolico, sollevò una questione cruciale, riguardo ad un emblema, dal sapore cabalistico, presente sul frontespizio del Dialogo sui due massimi sistemi del mondo di Galilei, libro al quale egli avrebbe dovuto concedere l’imprimatur necessario per la pubblicazione. Egli informò prontamente l’inquisitore Clemente Egidi[6], scrivendo allarmato che in tale testo: <<vi sono molte cose che non piacciono>>.

Il Riccardi invitò tuttavia l’Inquisitore ad operare <<con dolcezza>> nei confronti dello scienziato pisano, per cercare di fargli accomodare quanto non andava. Per poi concludere, con tono perentorio: <<Avvisi se l’”impresa de’ tre pesci” è dello stampatore o del Sig. Galilei, e procuri destramente scrivermene lo intendimento>>.

Questo marchio in effetti ha un che di inquietante. I tre delfini sono disposti in modo tale da formare una spirale a tre rami. Ogni delfino preso separatamente rappresenta il numero sei. Pertanto, tre delfini, corrispondono a tre sei. Il 666. Ecco così presentarsi in un ambito del tutto inadeguato ed impensabile l’apocalittica “cifra della bestia”.

Secondo questa linea interpretativa, appare del tutto giustificato l’allarme del padre Riccardi, nei confronti dei “tre pesci” marchiati su di un’opera scientifica, nella quale si presentavano dissertazioni che proponevano addirittura il cambio di un millenario paradigma astronomico. Il passaggio cioè dal modello geocentrico, a quello eliocentrico copernicano.

Galilei tuttavia non si allarmò più di tanto di fronte al richiamo di padre Riccardi. E nemmeno si degnò di svelare in prima persona e prontamente l’arcano, fornendo spiegazioni plausibili che dissolvessero i dubbi circa quel simbolo, intorno al quale aleggiavano ombre ermetiche ed eretiche. Per quale motivo infatti compariva sul frontespizio della sua opera quella figura ambigua apertamente anticristiana? Chi e perché l’aveva scelta? Galileo era a conoscenza ed aveva approvato che venisse stampato sul suo libro di filosofia naturale un emblema che invece era del tutto estraneo alla scienza di cui egli in prima persona si faceva paladino?

Galilei dunque non si curò di rispondere direttamente e prontamente a tali interrogativi, celando nel suo intimo la risposta ed il segreto. Furono invece i suoi autorevoli amici a rispondere, minimizzando, insinuando dubbi, mettendo in difficoltà il Riccardi, anche con sarcastiche insinuazioni.

In particolare, Filippo Magalotti [7], dopo aver irriso l’osservazione del padre gesuita riguardo a quel marchio: <<io mi vergognerei per reputazione sua e di chi ne è stato l’inventore>>, ridimensionò il significato dello stesso simbolo, come se fosse un segno come un altro, senza alcuna valenza o significato particolare. E pertanto non si trattenne dal <<ridere e far atti di meraviglia>>, per la bassa e meschina insinuazione del Riccardi, che tale “impresa” potesse contenere un senso recondito e misterioso.

Magalotti pertanto assicurò padre Riccardi, che il marchio fosse quello dello stampatore Landini di Firenze. Anche se lì per lì non poteva dimostrarlo. Allora, incaricò il fedele amico Guiducci[8] di cercare qualche libro dello stesso stampatore, <<fosse anche solo un lunario>>, ove comparisse tale emblema. Dopo circa un mese, ricevette proprio un lunario, insieme ad un libro usato da un’imprecisata <<compagnia>>, ed <<un altro foglio che deve pur essere servito a qualcosa>>, marchiati nello stesso modo.

Se il Guiducci in un mese di ricerca nella stamperia fiorentina non riuscì a trovare niente di meglio che quei fondi di deposito, allora vuol dire che quella strana sigla composta dai delfini in circolo non era il marchio ufficiale della stamperia Landini. Ma semmai quello utilizzato per stampe particolarmente riservate, ad uso di oscure confraternite, o di segretissime logge. Peraltro, lo stampatore in questione avrebbe potuto benissimo cedere ad eventuali insistenze, supportate semmai da compenso adeguato, se non proprio da vere e proprie minacce, ed imprimere quel marchio su qualche innocuo almanacco, o altro foglio, dimostrandone così l’uso consueto.

Come rassicurato da quei pur scarsi elementi di prova, raffazzonati dai sostenitori dello scienziato in un mese di ricerca nella bottega dello stampatore fiorentino, il bonario padre “Mostro” sentendosi alle strette, diede infine l’imprimatur necessario per la pubblicazione del testo galileiano. All’interno del quale tra l’altro venivano ribadite le stesse affermazioni già condannate dalla Chiesa, durante il primo processo subito da Galilei, nel 1616. Pertanto, nel luglio del 1631, Galileo ottenne l’imprimatur ecclesiastico tanto atteso.

Ricostruiamo brevemente i passaggi di questa vicenda. Con il pretesto dell’epidemia di peste scoppiata a Firenze, Galileo ottenne di far esaminare il Dialogo dall’inquisitore di Firenze, a lui propizio. Ma il padre Maestro del Palazzo Apostolico, Niccolò Riccardi, intervenne presso questo inquisitore perché, esaminando il frontespizio del Dialogo, era rimasto colpito dal cosiddetto marchio dei pesci.

Gli amici di Galileo, tra i quali l’ambasciatore di Toscana presso il Vaticano, Francesco Niccolini, che aveva sposato la nipote preferita dello stesso padre Riccardi, ed il “cameriere segreto” del Papa, padre Giovan Battista Ciampoli, insistettero a tal punto da indurre il Riccardi a concedere l’imprimatur, senza che il Vaticano esaminasse direttamente il libro.

Per questa sua concessione alle insistenze dello scienziato e del suo seguito, sul padre Riccardi ricadde il monito del Santo Uffizio, il quale avvertì una certa <<inavvertenza e trascurataggine>> nel sottoscrivere tale ambiguo libro, ignorandone <<gli editti e gl’ordini e le proibizioni>>. E proprio per questa ragione, il Maestro del Palazzo Apostolico non sfuggì alla censura dell’Inquisizione[9].

La leggenda nera del processo
Per quanto riguarda Galilei, il Santo Uffizio, probabilmente, comprese benissimo che nel Dialogo fosse presente un riferimento, un messaggio segreto, in base al quale il modello eliocentrico, il movimento della Terra e la centralità del Sole assumevano significati magici e sovversivi[10].

Un riferimento profondamente anticlericale, che si riallaccia al culto del sole, praticato in Eliopolis, città egizia dei sacerdoti-maghi esaltati da Bruno. Ma anche prototipo della Civitas solis, decantata da Campanella, a sua volta in stretto contatto con la segretissima setta dei Rosacroce[11]: <<Non per niente in difesa del Sistema Copernicano, nello stesso lasso di tempo, accorrono tra gli altri anche Bruno e Campanella, amici tutti della rinata scienza o membri tutti di una sorta di unica “società segreta”>>[12].

In occasione del processo del 1633, Urbano VIII, estimatore di Galileo, raccomandò con insistenza che lo scienziato venisse trattato con estremo rispetto. Raccomandazione che venne onorata, fin dalle prime fasi del processo, con l’eccezione accordata allo scienziato di risiedere nella lussuosa ambasciata di Toscana, Villa Medici, senza alcuna restrizione, continuando ad avere dunque piena libertà di movimento.

Trascorsero così pochi mesi. Il 22 giugno del 1633, il Tribunale del Santo Uffizio prima di emettere il verdetto, ricordò a Galileo della disubbidienza nei confronti del monito del Cardinale Bellarmino. Ossia, di parlare dell’eliocentrismo come modello ipotetico, dal momento che mancavano prove certe della sua effettiva realtà. Inoltre, venne sottolineata la sua manovra sotterranea per ottenere l’imprimatur del Dialogo, con promesse ed artifici, truffando così il Santo Uffizio e lo stesso Papa.

Dopo questo monito, venne la sentenza. Galilei, dopo aver abiurato in modo formale le proprie idee sull’eliocentrismo, se la cavò alquanto bene. Infatti, subì una condanna irrisoria: <<per tre anni a venire dichi una volta la settimana li sette Salmi penitenziali>>[13], anche privatamente, dunque senza alcun controllo. Tempo necessario: una quindicina di minuti. Ma non solo. Gli venne persino concessa l’autorizzazione a far recitare questi sette salmi ad una delle due figlie, rinchiuse in clausura.

Galilei non venne incarcerato in nessuna prigione, nonostante la richiesta dell’Inquisizione, grazie all’intervento diretto di Urbano VIII, che dispose per lo scienziato piena libertà di movimento. Infatti, Galilei continuò a soggiornare nell’ambasciata di Toscana, Villa Medici, al Pincio, <<reputato da tutti la meglio di Roma, senza difficoltà>>[14]. <<Un luogo così delizioso>>, gli scrisse infatti sollevata l’affezionatissima figlia suor Maria Celeste, il 2 luglio 1633[15].

Successivamente, per altri cinque mesi, venne ospitato nel palazzo dell’Arcivescovo di Siena, il gesuita Ascanio Piccolomini (1590-16719), suo amico ed estimatore. Infine, si trasferì in modo definitivo nella sua villa, “Il gioiello”, in Pian dei Giullari ad Arcetri, una sorta di “loggia” fiorentina, su due piani, ancora esistente. La loggia del piano terra è attualmente murata, ma sono ancora visibili le colonne di quella vecchia. Il loggiato superiore invece è aperto.

È in questo luogo ameno ed esclusivo che Galileo poté tranquillamente proseguire i suoi studi, ricevere amici ed allievi, curare la sua corrispondenza italiana ed estera, senza alcun impedimento. Senza che il segreto del marchio dei delfini venisse violato.

Cartesio dunque si era sbagliato. La formale condanna ecclesiastica dell’eliocentrismo non riuscì a fermare la forza dirompente di tale dottrina. Infatti, anche se il cerchio sembrò stringersi intorno ai suoi fautori, la rivoluzione esoterica ugualmente si avviò. <<E la terra intera, presa d’ammirazione, andò dietro alla bestia>>[16].



[1] La tradizione ermetica <<non si è mai interrotta: in tutte le epoche sono sempre esistiti Grandi Iniziati che hanno trasmesso ad altri Iniziati le Verità di cui essi erano depositari. In tal modo, la tradizione iniziatica esoterica non ha subito interruzioni o salti>>, G. Di Bernardo, Filosofia della massoneria, Marsilio, Venezia 1987, pagina 126.
[2] G. Di Bernardo scrive che: <<mediante i simboli diventa visibile qualcosa che sta al di là dei significati che assumono i fatti storici … il mondo della Qabbalà è un mondo di simboli>>, in La ricostruzione del Tempio – Il progetto massonico per una nuova utopia, Marsilio, Venezia 1996, pagina 87.
[3] Confronta M. Eliade, Immagini e simboli, Jaka Book, Milano 1988, pagina15 e seguenti.
[4] U. Nicola, Atlante illustrato di filosofia, Demetra, Colognola ai Colli 1999, pagina 440.
[5] Niccolò Riccardi (1585-1639) genovese, frate domenicano, soprannominato “Mostro” dal Re di Spagna, forse non solo per la sua straordinaria cultura, ma anche per la sua notevole obesità, era zio di Caterina di Francesco Riccardi, moglie dell’ambasciatore del Granduca di Firenze a Roma Francesco Niccolini, e sostenitrice di Galilei. Eletto Maestro del Sacro Palazzo Apostolico, il Riccardi venne incaricato delle questioni relative alla stampa del Dialogo sui due massimi sistemi.
[6] Clemente Egidi da Montefalco, Inquisitore generale di Firenze.
[7] Filippo Magalotti apparteneva ad una delle famiglie fiorentine che in Roma godevano i favori papali dei Barberini, coi quali erano anche imparentati. Costanza Magalotti infatti aveva sposato Carlo Barberini, fratello maggiore dei Pontefice.
[8] Con Mario Guiducci, Galilei scrisse un Discorso sulle comete, tenuto nell’Accademia Fiorentina e pubblicato nel giugno dello stesso 1619, in risposta polemica ad una pubblicazione del Padre Orazio Grassi, dell’ordine dei Gesuiti, professore di Matematica del Collegio Romano, nella quale veniva interpretata la comparsa di tre comete, avvenuta per la prima volta il 29 novembre 1618, nella costellazione dello Scorpione. Era una premessa alla polemica sviluppata successivamente contro il Grassi dallo stesso scienziato ne Il Saggiatore.
[9] Lettera di Francesco Niccolini ad Andrea Cioli, del 3 luglio 1633.
[10] Confronta L. S. Lerner e E. A. Gosselin, citato, pagina 29.
[11] F. A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, citato, pagina 445.
[12] M. Caleo, citato, pagina 11.
[13] Da La sentenza di condanna di Galilei.
[14] Lettera di Benedetto Castelli a Galilei, del 6 aprile 1630.
[15] Fu proprio la morte repentina di suor Maria Celeste, figlia prediletta di Galilei, avvenuta qualche mese dopo l’abiura, ad infliggere una dura condanna allo scienziato, peraltro già afflitto dalla cecità incombente.
[16] Apocalisse, 13, 3.

Nessun commento:

Posta un commento